Rifletto sull’immagine, sulla sua forma formale, sul suo manifestarsi quando liberata da relazioni e ancoraggi. Oltre un determinato tempo, oltre un determinato spazio.
Credo in una forma liberata da un oggettività che si perpetui nel primo sguardo che l’ha realizzata. Un’immagine viva, che muti nel tempo. Che accolga lo sguardo e poi lo porti altrove senza preventivamente dare direzioni e parametri.
Lo sguardo dello spettatore due passi indietro all’immagine, nel mezzo il performer che continuamente raggiunge e perde l’immagine.
Muoversi lungo una tensione, non verso un punto di arrivo, che se visibile, renderebbe vano il percorso. Il sole che vedeva Empedocle è lo stesso che vediamo noi, ma abbiamo fatto un viaggio.
Trovare una risposta, esaurire quindi le mancanze? Forse il mancato ci abbandona solo nel nostro corpo morto.
L’oggetto è me e quindi mi è anche soggetto, a cui non posso negarmi e a cui non devo negarmi, per onestà nei confronti dello spettatore, che riconosce tratti nel corpo di un corpo suo fratello. Il mio corpo però è in tensione. Solo essendo a me posso far uscire una forma da me. Altrimenti si proietterebbe un oggetto generico, colloquiale appunto nel suo appartenere ad una stereotipia di essere semplicemente sociale.
Le mancanze come matrici di immagine.
Ovvero una mancanza percepita in che modo può uscire fuori e divenire segno e quindi ponte tra il vuoto che la delinea e l’immagine piena che esprime.
La creazione di un non c’è. Ed il riempimento di tale non c’è con il percorso (verso la visione) che questa mancanza genera. Il mancato muove quindi.
Considerare l’immagine della proiezione di tale mancanza.
Come si trasforma il vuoto in pieno?